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La favola di Hon- gu e Nor-bu


a Silvia (Chan-pa) a Claudia (Sat-tva)


Hon- gu incontra un’ombra

Hon-gu camminava quel dì solo solo per ritornare a casa, come un piccolo puntino sotto quel cielo coreano di un blu profondo e terso che raggiunge il suo apice solo in autunno. Un color indaco
( tchok, come lo chiamano i coreani ) che solo a vederlo fa aprire il cuore di gioia e illuminare gli occhi di una profondità senza limite.
La viottola di campagna sembrava condurlo verso i pressi del ponte di Ch'ônggyech'ôn che tutt’oggi attraversa un ben noto fiumiciattolo dall’acqua sonora, che porta il suo stesso nome.
Alla vista del ponte gli venne in mente, chissà perché, il ricordo di un’antica usanza che aveva sentito raccontare da suo padre. Che durante il periodo Chosôn i coreani di allora avevano la non comune usanza di punire chiunque infrangesse la legge o rubasse fondi governativi facendolo bollire in un pentolone d’acqua.
Questo tipo di punizione lo chiamavano p'aenghyông e veniva eseguita su uno di quegli stessi ponti che cavalcano ancora il Ch'ônggyech'ôn.
Secondo la leggenda a metà del ponte si costruiva un alto focolare, e un calderone grande abbastanza da contenere una persona era posto su una catasta di legna. Il colpevole, strettamente legato con funi, lo si ficcava poi nel calderone. Si chiudeva il coperchio e si accendeva il fuoco.
Certo, pensò Hon-gu, la crudeltà degli esseri umani è davvero senza limiti. Da tutt’e due le parti: di chi ha torto e di chi ha ragione. Avere ragione non significa agire del pari, o anche peggio, di chi ha commesso il torto. Altrimenti si entra in una catena senza fine…
Se ne stava dunque immerso e sperso in simili pensieri il buon Hon-gu, quand’ecco che vide innanzi a sé un’ombra. Guardò meglio: era come l’ombra di uno shramana.


 
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Fabrizio Ulivieri