Occhi giganteschi pressoché inaccessibili, aperti sul cielo che sembra qui avere la trama fitta della seta: è Egothica il marchesato delle vanità perenni. Un luogo, per quei pochi stranieri che vi possono accedere, intriso di bellezza, polveri di cocco e fondotinta evanescenti. Forse per la sua posizione geografica, un’isola stretta da oceani di sostanze emollienti, Egothica è rimasta lontana dall’instancabile processo di deterioramento del tempo, rendendo la vanità uno stile, una propensione naturale. La vanità colma la vita degli abitanti di Egothica che trascorrono gran parte della giornata con le labbra sfioranti lo specchio per poi svanire la sera nei templi aromatici, tra i fumi d’incenso, ad atteggiare gli occhi al vano.
Nel suo libro I Cieli dell’Uno, l’esploratore Serge Cristobal, parla di Egothica come la città dei dandy, delle griffe sacre, delle cattedrali omeopatiche, dei beautymarket, dei colori bohème, delle schiumose fontane idronutrienti e dei relax vitaminici al sole d’inverno da godersi distesi sulla neve odorosa agli estratti di Iris. Descrive i sentieri turbinanti sulle colline di pelle vellutata e le bollicine d’ossigeno che ripuliscono l’ambiente ad ogni spirata di vento. Pochi accenni, forse per pudore, agli usi e costumi degli autoctoni che non si mostrano per strada la mattina, perché dormono fino all’una, né si vedono il pomeriggio, perché intenti a curare il proprio corpo. Assorbiti dall’edonismo spiccato, i piaceri di carne e sangue sono amplificati ed esauditi dentro strutture rivestite di vellutata membrana cellulare e brandelli di specchio organico, modellabile a piacimento. Sostanze chimiche disinibitorie aleggiano nelle alcove.
Alcuni degli abitanti, perlopiù donne lesbo-chic, sono soggetti ad attacchi di maso-cinismo, anche se alcuni sostengono che si tratti di una pratica |